7 dicembre 2008

TDW secondo al NeroPremio!

Non è come vincere ma siccome è la prima volta sono comunque felice come una Pasqua, anche se siamo solo a Natale, o forse proprio per questo.
Insomma sono arrivato secondo ad un concorso, che non è il Campiello o lo Strega, ma io non sono neppure un numero primo e neanche troppo solo.
Secondo. Sono arrivato secondo con un mio racconto inedito.
La Stazione del Basta (una delle prime cose che ho scritto, pensa te).
Il concorso è il NeroPremio del sito La Tela Nera.
Ecco il link per chi dubitasse: http://www.latelanera.com/editoria/news/notizia.asp?id=1704
E via così, di slancio.

Un ringraziamento a tutti, alla mamma e al papà, alla moglie e alle tante amanti (magari!), al mio editore (che non esiste), a chiunque non mi conosce ma mi ama lo stesso, al primo che passa pensando alla sera di natale che dovrà passare in ufficio.
Insomma, "Alla gnocca e a chi la pastrocchia, al pesce e a chi gliene cresce" (scusate ma di solito brindo così con gli amici).

Evviva.

Con tanto ketchup



«Tienilo fermo così, non farlo muovere. Mi raccomando.»
«Ho capito, ma mi sto sporcando tutto.»
«Chi cazzo se ne frega. La vuoi fare oppure no sta’ cosa?»
«Si, piantala, non cominciare a rompermi le palle. Dove stai andando adesso?»
«Tu tieni fermo quel coso, arrivo.»
Stephen uscì dalla stanza camminando sui cocci di piastrelle e mattoni e sparì sulla destra. Michael stette lì con il manico stretto tra le mani e il sudore che gli scendeva a rivoli dalla fronte. Dopo due lunghi infiniti minuti sentì di nuovo i passi di Stephen. Quando comparve con un salto in mezzo al varco tra le due stanze (a lui piacevano le entrate ad effetto) per poco Michael non cadde all’indietro dallo spavento.
«Ma vaffanculo che cazzo ti sei messo addosso?»
Stephen dopo qualche posa da indossatore per far vedere come gli stava bene la tutina bianca con i guanti arancioni da cucina, si tirò sulla fronte la maschera antigas e disse: «Non ti piace? La tuta è perfetta, la maschera magari è un po’ esagerata ma non ho trovato di meglio. Vai di là, nella mia borsa c’è qualcosa anche per te.»
Stephen lo sostituì nella presa al manico e Michael, sbattendo le mani paonazze per far tornare la circolazione, si alzò tenendo lo sguardo fisso sulla loro preda.
«Si è mosso prima, mi sa che si sta svegliando.»
«Ma sei scemo? Con tutto quello che gli abbiamo ficcato in gola e con questo coso in bocca dove vuoi che vada. È già bello che partito. Comunque, guarda, se ti fa sentire più tranquillo.»
Stephen sfilò il coltello da sub dalla bocca del negro che stava lì sdraiato davanti a loro e glielo ficcò dentro a ripetizione due o tre volte. Il corpo non si mosse di un millimetro.
«Contento?»
«Mum» mugugnò poco convinto Michael.
«Ora per cortesia, vai a cambiarti che non voglio fare notte.»
Qualche istante dopo, Michael tornò con addosso una tuta blu da benzinaio, guanti gialli e una maschera di gomma da maiale tra le mani. Stephen appena lo vide, scoppiò a ridere.
«Mettila in faccia, ti supplico Michael, fallo per me.»
«Ti pare divertente?» Sbuffò ma la indossò. Un maiale antropomorfo e obeso in tenuta da lavoro.
«Sei fantastico. Kunta Kinte, guardalo anche tu» afferrò con le due mani la testa con il coltello conficcato dentro e la girò verso Michael. «Non è un bellissimo maiale, eh? Diglielo anche tu, Kunta, non è un bijou?»
«Sei uno stronzo, Stephen.»
Così conciati i due si misero all’opera. Michael passava gli attrezzi eseguendo gli ordini di Stephen con la faccia schifata e il vomito che gli saliva e scendeva dalla gola. Stephen da dietro la maschera verde imprecava e approvava a seconda di come procedeva l’operazione.
Dopo venti minuti si concessero un attimo di pausa.
«Sta procedendo abbastanza bene, no?» chiese Stephen.
«Come no, è uno schifo colossale: mi viene da vomitare, con questa tuta del cazzo sono zuppo di sangue fuori e di sudore dentro. Quando cazzo abbiamo finito?»
«Non dovrebbe mancare molto, solo che adesso c’è la parte più difficile, dobbiamo fare attenzione a non rovinarla. La testa è la più delicata. Ti ricordi le altre due volte? Non voglio mandare tutto a puttane anche adesso.»
«Questo è poco ma sicuro, io una merda del genere non la voglio più fare, manco per tutto l’oro del mondo.»
«Esagerato. Ti fanno così schifo i soldi del vecchio?»
«No, ma quel tipo mi fa paura. Chi ti dice che un giorno o l’altro non si sveglia e decide di mettere anche noi due nella sua collezione?»
«Ma piantala, sei un fifone di merda. Adesso fai un bel respirone e rimettiti la tua bella mascherina che dobbiamo finire.»
Il silenzio tornò da sottofondo ai colpi di martello sul punteruolo da falegname col quale Stephen stava staccando la pelle dai muscoli, alternandolo con il coltello da sub e un grosso trinciapolli.
La testa era la parte più difficile. Doveva fare piano. Non dare strattoni, non bucare la faccia. Nei film la fanno facile: quando spellano qualcuno viene via come una buccia di banana. Col cazzo. Se lo fai veramente e senza gli attrezzi giusti è duro, sporco e si rompe tutto e finisce in un merda di poltiglia di sangue e carne. Soprattutto se con il punteruolo scheggi le ossa sotto, allora è davvero un disastro.
Era il loro primo lavoro per il vecchio, dovevano farlo bene. Non potevano sbagliare. Erano in prova. Il vecchio voleva la pelle, solo quella. Intera e intonsa, senza nemmeno un graffio, aveva ripetuto. Di una certa taglia, oltretutto. Se non erano così non le avrebbe accettate, non gliele avrebbe pagate. Lui doveva indossarle, le pelli che Stephen e Michael gli avrebbero procurato d’ora in poi, se avrebbero lavorato bene. Lui, di pelli, ne aveva un’intera collezione, un guardaroba pieno. Ora, però, gli serviva un altro negro.
Nel silenzio del casale diroccato, un urlo animale esplose dal nulla.
«Porca puttana, porca troia, porca di quella puttana troia! Lo sapevo. Lo sapevo.»
Stephen si alzò di scatto lanciando rabbioso gli arnesi che aveva in mano. Con la maschera ancora addosso, si avventò sul cadavere mezzo spellato, gli sfilò il coltello dalla bocca e cominciò a conficcarglielo nel petto e nel ventre. Fuori e dentro, dentro e fuori. Ora non gli interessava rompere tutto. Si muoveva furioso, in preda ad una crisi di nervi. Pelle, sangue e ossa schizzarono dappertutto. Michael si era buttato di lato, aveva capito cos’era successo e sapeva fin troppo bene come avrebbe reagito il suo amico.
Quando gli parve che la furia si fosse un poco placata, si alzò e da dietro cercò di tirare in piedi Stephen che oramai aveva la tuta zuppa di sangue.
«Stephen, senti, non fare così, la prossima andrà meglio. Ora abbiamo capito come fare, non sbaglieremo più.»
«Stavolta ce l’avevo quasi fatta, quasi. Mi mancava la parte dietro l’orecchio. Possibile, cazzo, che sia così sfigato? Un attimo, solo un attimo e quell’aggeggio di merda mi è scivolato e ha bucato i capelli.»
«Ho capito, adesso calmati. Non sbaglierai la prossima volta. Ci prenderemo più tempo, faremo con calma e vedrai che andrà tutto bene.»
«Si, Michael, sarà così. Lo sai, quanto odio sbagliare.»
«Lo so, non ti preoccupare. Non sbaglierai più. Però, adesso calmati, mettiti lì tranquillo, seduto, che sistemo tutto io e poi andiamo a farci una bella birra.»
«Si, Michael, mi metto lì e mi passa tutto, poi una birra. D’accordo?»
Lo sguardo di Stephen ricadde, tuttavia, ancora sul cadavere e per un attimo la rabbia gli rimontò. Caricò il piede destro e gli sferrò un calcio che fece rotolare l’ammasso sanguinolento che era stato un uomo di lato con un tonfo sordo e umido.
«Bastardo negro di merda, non sei servito a un cazzo.»
«Si, Stephen, è un negro di merda e non è servito a niente. Adesso però mettiti lì tranquillo e non ci pensare più.»
«Si, Michael, grazie. Se non ci fossi tu non saprei come fare.»
«Non ti preoccupare, penso io a tutto, adesso, tu rilassati.»
«Si, e poi andiamo a prendere una birra al Black Eagle, va bene Michael?»
«Si, Stephen, al Black Eagle.»
«Anche un bell’hamburger, però.»
«Si, anche quello, Stephen.»
«Con tanto ketchup, Michael.»
«Si, anche quello.»
«Senza cipolle, però.»
«Come sempre, Stephen, senza cipolle e con tanto ketchup. Ora riposa, però.»

27 settembre 2008

Abbi fede




- Padre?
- Si?
- Io lo so che questa volta non è come le altre, che questo peccato è molto più grave degli altri, di tutti quelli che ho commesso nella mia vita messi assieme.
- Perché mai, figliola?
- Sento che quello che sto facendo non è giusto.
- Giusto è solo l’amore, mia cara.
- Non so, Padre, ho paura che la Madonna possa averne a male.
- Vorrà dire che la penitenza sarà più lunga e severa, mia cara.
- Ma basterà, Padre?
- La Benevolenza di Nostro Signore Iddio è infinita, non temere.
- È che ogni volta vedo gli occhi della Madonna e del Bambin Gesù che mi fissano nel buio. Mi spaventa un po’.
- Non deve essere per forza un segno negativo. Loro sono sempre al tuo fianco, ti proteggono.
- Dice, Padre?
- Abbi fede, mia cara. Non c’è nulla di male in te e finché abiterai la casa del Signore la sua benedizione ti accompagnerà sempre, ogni istante della tua vita.
- Speriamo tanto, Padre. Grazie.
- Va meglio ora, vero cara?
- Si, Padre. Grazie.
- Ecco, abbi fede e non ti preoccupare che andrà tutto bene. Ora, devi solo recitare un’Ave Maria e due Pater Noster e vedrai che questi brutti pensieri passeranno.
- Si, Padre.
- Vai in pace, mia cara, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
- Amen.
- Ti aspetto alla solita ora, allora.
- Si, Padre, alle dieci.
- Bene, bene. Però, Ines, magari stasera porta anche quella tua amica, come l’altra volta, non è stato tanto male, vero?
- Va bene, Padre, proverò a dirglielo.
- Bene, ora vai vai. Non ti scordare le preghiere, mi raccomando.

8 settembre 2008

Trovati in rete

Apprendistato
di Ugo Mazzotta


- Davvero se la fanno addosso?

- Sì Gennà.

- E come mai?

- È un istinto, Gennà. Lo fanno pure gli animali, è l'ultima chance quando stanno per essere divorati: così diventano un boccone schifoso. Però funziona poco, anche tra gli animali.

- E a te dispiace?

- Gennà, è lavoro. Un bersaglio non è più una persona, è un morto che cammina. Non mi piace spaventarli, no, ma il lavoro va fatto e basta; e fatto bene. Certo, quando mi accorgo che il loro ultimo pensiero è che se ne stanno andando al creatore in quelle condizioni mi fanno pena. Non sono di quelli che si divertono a umiliare il bersaglio: quello non è un lavoro ben fatto.

- Ti è successo?

- Sì, mi ricordo di una volta… era una ragazza, una brunetta sui venticinque, con gli occhi neri come due ulive. All'ultimo momento li spalancò, fece una faccia triste, mortificata, si sarebbe messa a piangere se ne avesse avuto il tempo. E si vedeva che non era più la paura, era la vergogna per quella cosa lì.

- E l'hai lasciata andare?

- Gennà, come te lo devo dire? È lavoro. C'è una regola fissa: se manchi un bersaglio, il prossimo bersaglio sei tu, non ci sono santi. Non c'è mai una seconda possibilità.

- Ma com'è che hai dovuto farti la ragazza?

- Gennà, ma tu quanti fatti vuoi sapere? Quella era la fidanzata del fratello di qualcuno che aveva fatto qualcosa che non doveva fare. E siccome quel qualcuno stava troppo abbottonato, e il fratello pure, chi di dovere ha deciso che ci doveva andare la ragazza di mezzo. Ma tutte 'ste cose, è inutile saperle quando devi fare un lavoro.

- Mi piacerebbe vederti lavorare. Mi porti con te la prossima volta?

- Gennà, ne abbiamo già parlato, sei troppo giovane. E poi l'ho promesso a tua madre prima che morisse: devi andare alle superiori, pigliarti un diploma… Poi vediamo.

- Che palle, papà!


Sbam!


Quante cose. Quante cose potrei fare ancora nella mia vita. Potrei, magari, ricominciare da un nuovo sogno, anche uno preso in prestito. Non ci sarebbe nulla di male. Potrei ripetere tutto da capo, fare meglio. Forse.
Quante cose. Pensare che questi tipi che mi guardano, adesso, con occhi e bocche a cerchio, facce che urlano mute dietro i loro vetri, facce che corrono via sfumando dal basso in alto senza più lineamenti, anche loro avranno pensieri e sogni, e tante cose da fare. Se solo potessi, vorrei fermarmi, vorrei chiedere a ciascuno di loro cosa avrei potuto fare di meglio nella mia vita. Della mia vita.
Ma non posso. Oramai è tardi, sono quasi arrivato.
Vorrei urlare, che mi sentissero, ma non posso. L’aria a questa velocità e così fredda, mi impedisce quasi di respirare. Vorrei solo che si spostassero, che non stessero lì sotto. Anche perché tra qualche istante, purtroppo, io mi schianterò lì, su quel marciapiede, su di loro.
Su di loro. Su di loro. Ora. Via! Addio! Oddio!
Ecco. Sbam!

1 settembre 2008

Perle d'autore

Lo uccisi perché invece di mangiare ruminava.
Era tanto brutto, quel poveraccio, che ogni volta che lo incontravo mi sembrava un insulto.
Tutto ha un limite.
Gli chiesi l'Excelsior e mi portò El Popular. Gli chiesi le Delicados e mi portò le Chesterfield. Gli chiesi una birra chiara e me la portò scura.
Il sangue e la birra, mescolati per terra, non fanno un gran bell'effetto.

Max Aub, Delitti esemplari

29 agosto 2008

Il mio paese




«Gabriele.»
«Chevvuoi?»
«La sai una cosa?»
«Cosa?»
«Il mio paese è un paese dove puoi sognare e, a volte, questi sogni diventano veri.»
«Ma davvero?»
«Oh, si. Il mio paese è un paese dove la gente costruisce le sue cose, le sue case, lavora in pace e non pensa di notte a come fregare il prossimo.»
«Ma guarda un po’.»
«Si, si. E sai, il mio paese è un paese dove se tu vedi una donna che ti piace, le fai la corte e se va bene lei accetta di uscire la sera con te e se poi va ancora meglio finisce magari che te la sposi e ci fai pure dei figli. E’ un posto così, il mio paese, col cielo azzurro e la terra ocra, pieno di verde, di gente nei parchi e sulle spiagge, di contadini nei campi e nei boschi, di urla di bimbi e fili d’aquiloni…»
«Da non crederci.»
«Gabriele.»
«Eh?»
«Ma secondo te, un paese come il mio paese, dove potrebbe essere?»
«Se non lo sai tu.»
«Il mio paese deve esistere da qualche parte, no?»
«Cosa vuoi che ne sappia io, so solo che se ci troviamo in questa cella del cazzo è perché io ho fatto esplodere il cuore di quella buona donna di mia moglie con una lama da quindici, e tu hai smontato a pezzi e sotterrato in una porcilaia due troie che si erano permesse di chiederti i soldi per la loro prestazione.»
«Gabriele.»
«Chevvuoi?»
«Sai che ti dico?»
«Cosa?»
«Sei un materialista di merda.»

27 aprile 2008

La notte più lunga



La notte più lunga
Fatto. Anche questo è andato. Non per vantarmi, ma anche stavolta sono stato piuttosto bravo. Cacchio, saranno pure serviti trentacinque anni nel recupero crediti. Intendiamoci, non è come fare il detective, ma poco ci manca. Si converrà che non è proprio da tutti rompersi la testa e la schiena (e le palle) con indagini certosine, eterni pedinamenti, perquisizioni al limite della legalità, sempre e solo per beccare qualcuno con le mani nel sacco, nel mio caso con il bene da pignorare, normalmente macchine di lusso o robetta del genere. Beh, c’è da dire che prima d’ora non avevo mai ammazzato nessuno. Ma volendo questo è solo un dettaglio. (continua)
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La Stazione del Basta

La Stazione del Basta

Che cavolo di posto, scomodo, puzzolente e freddo. Probabilmente l’avevano concepito così apposta. Perché mai uno dovrebbe mettersi a suo agio e rilassarsi mentre aspetta la metropolitana? (...)
Francesco, ad ogni modo, non era lì perché avesse intenzione di andare da qualche parte. Sperava solo di non essere disturbato troppo. (...) Per ora aveva altro su cui meditare.
La prima Bestia arrivò lentamente, sbadigliando e sferragliando con gli occhi spenti. Aprì i suoi fianchi ma non inghiottì nessuno. Era troppo presto. (continua)

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Scrittura Creativa

The Big Thrill